Robert Smith – Strange as angels

 

Conosco maghi in grado di compiere l’incredibile incantesimo di chiudere il cerchio del tempo, e ricondurmi all’inizio del percorso senza farmi perdere quello che è venuto dopo. Capaci di lasciarmi con il sentimento di essere rimasta intera, senza il rimpianto di essere inconsapevolmente invecchiata per aver abbandonato a quei giorni il mio compimento di essere umano, così come sentivo di essere.

Robert Smith è uno dei pochissimi a possedere questo raro e prezioso potere, usandolo generosamente con grazia e leggerezza ogni volta che sale sul palco. In quegli anni ’80 così esagerati e frivoli, luccicanti di glitter e canzoncine orecchiabili, così spasmodicamente impegnati a confezionare involucri sontuosi intorno al vuoto pneumatico, lui è diventato la voce e l’incarnazione di chi in tutto questo non si riconosceva, che si sentiva straniero e, in quel mondo, sbagliato.

Robert è interprete e bandiera di una generazione che non si è voluta adeguare, l’altra parte di un’epoca, certamente quella più oscura e profonda, ma il dark è solo uno dei sentieri in un cammino che esplora tante altre strade, che si concede infiniti motivi d’ispirazione:

l’allegria giocosa di Friday I’m in love,

il sogno d’amore di Just like heaven, 

la ninnananna horror di Lullaby, 

l’incubo dark di A forest, 

la favola gotica di Charlotte Sometimes, 

l’oscurità dolorosa e plumbea di Pornography e Disintegration,

l’amore assoluto e rivelato di Lovesong, 

rabbia ed estasi, technicolor e bianco e nero, prossimità e distanza…

 

A me, che in quegli anni avari non smettevo di cercarle, i Cure e Robert Smith hanno dato intensità e poesia, in ogni declinazione possibile e, in tutto questo tempo trascorso, mantenendo intatti e inalterati fervore e passione.

Anche dopo quarant’anni, ogni volta che quest’uomo dagli occhi violetti sale sul palco la magia si rinnova ed entro in una dimensione onirica e incantata dove la logica convenzionale e i rigidi confini della mente razionale sono banditi, cancellati.

Robert non è una di quelle rockstar che dal palcoscenico liberano energie poderose e sensuali,  lui è una creatura che appartiene al regno dei sogni, della fantasia, dell’immaginario.

Come sospeso tra le pieghe di dimensioni aliene, è fratello dei teneri freaks di Tim Burton, che lo celebra in Edward Mani di Forbice e ne evoca l’immagine e la musica in tanti suoi film.

 

Il mistero svelato di Robert Smith sta nei suoi gesti, goffi e quasi estemporanei rispetto alla musica eppure tanto caratterizzanti, tanto significativi da essersi conquistati una semantica propria, che non è cambiata nel tempo, è cifra, logo, chiave di un posto familiare e mio.

Oggi come all’inizio, quando non impugnano la chitarra le mani compiono delicati e frementi movimenti circolari mentre di tanto in tanto lo sguardo si alza oltre, molto oltre il luogo e il momento presente, a rassicurarmi che le favolose visioni di universi paralleli, orridi o incantevoli che siano, continuano ad affollargli occhi e anima.

E quando si stringe a se stesso in quell’autoabbraccio così particolare, così unicamente suo, in quell’istante lui sta abbracciando e proteggendo un mondo intero, di cui io sono sempre stata parte.

 

Per questo quel make-up inconfondibile, fatto di pochi tocchi decisi, occhi e palpebre coperti di matita nerissima, rossetto rosso e sbavato, capelli cotonati, non è mai cambiato, rimanendo ostinatamente uguale a se stesso.

Perché è un marchio acquisito, una sigla grafica e astratta, una rivendicazione d’identità applicata a un volto che invecchia e si appesantisce ma, come in un Dorian Gray al contrario, rimane inalterata.

 

 

 

In questo caso è la maschera a rimanere integra e fedele al proprio destino, immutabile e immortale mentre il corpo fisico, placidamente e senza rimpianto, si abbandona al passare delle stagioni. Lì sotto, proprio come la donna dei suoi sogni, Robert rimane il ragazzo “tenero e unico, perduto e solo, strano come gli angeli” che ho incontrato tanti anni fa.