Lisbona – Ulisse, l’oceano, la fine del mondo

 “Nessuno potrà mai conoscere una città se non la saprà interpretare, interrogando se stesso. Ovvero, se non rischierà di persona i casi aleatori che la rendono imprevedibile e che le conferiscono il mistero della sua più intima unità”

José Cardoso Pires

 

I luoghi sono come le persone. Sanno provocare cortocircuiti di memorie, desideri, nostalgie; accolgono immaginazioni e soddisfano aspettative, a volte sembrano emergere da chissà quali profondità e accendono innamoramenti improvvisi e definitivi, come nei più lancinanti colpi di fulmine.

Specialmente le città, niente affatto sfondi ma organismi viventi e complessi, matrici di esistenze e relazioni, più che mai paradigmi del contemporaneo, possiedono una propria, particolarissima identità, definita, oltre che dalla loro singolare storia culturale e ambientale, dagli sguardi degli esseri umani che in esse vivono o con loro allacciano un legame di qualsiasi genere, a formare un codice che ciascuno può riempire con la propria visione, secondo un percorso non logico e prevedibile, ma piuttosto drammatico, quasi coreografico, fatto di illuminazioni. La città è un luogo dell’anima, dove è possibile porre domande, ipotizzare risposte, costruirsi una realtà in cui saltano le coordinate oggettive dello spazio e si rompe la linearità del tempo, a cui ognuno dà forma secondo i propri sogni e le proprie paure.

Per me Lisbona incarna quest’idea di città dove passato e futuro, memoria e progetto, solennità e quotidiano si ritrovano e continuano a ispirare meglio di quanto sappiano le città-icona dei nostri tempi, centrali, in movimento, proiettate costantemente in avanti su binari avveniristici.

Lisbona deve la sua irripetibilità al suo essere marginale e inattuale, di una marginalità fiera e ostinata, non solo geografica, e un’inattualità che insiste orgogliosamente su abitudini e modi di fare antichi, i negozi della Baixa, mercerie e drogherie, le imposte di legno, le insegne dipinte, i commessi in guanti bianchi e camici blu quasi per miracolo non congelati in un bianco e nero anni ’30;

i leggendari elétricos, gli sferraglianti tram dei primi decenni del ‘900 che arrancano passando di misura tra le pareti strettissime dei vicoli nella città vecchia, dove dalle osterie e dalle bottegucce qualcuno è sempre pronto a offrire al volo al conducente una birra fresca o un frutto di stagione.

E se tutto questo consapevolmente e furbescamente sfocia in superfetazioni di luoghi comuni per alimentare miti da cartolina, questa è l’anima vera di Lisbona, non i locali di tendenza, gli atelier di design, i docas dove si succedono per chilometri lounge bar, templi house music, ristoranti d’avanguardia.

È una città contraddittoria, Lisbona, già a partire dalla propria geografia, avvitata in una spirale che contrappone l’intrico moresco e popolare delle stradine arrampicate sui suoi sette colli all’ordine razionale della città bassa, rigorosamente organizzato in una geometrica scacchiera fino al maestoso approdo sull’oceano.

Per non parlare della sua  storia, che coincide con quella dell’intero Portogallo, una storia epica, intensa, drammatica fin dall’inizio, fatta di assedi, battaglie, conquiste, esplorazioni, scoperte di nuovi mondi, terremoti e maremoti, colonie e schiavismi, una grandezza imperiale dolorosamente perduta,

in tempi moderni la più lunga dittatura che l’Europa abbia mai conosciuto, insieme a quella spagnola, ma ancora più buia, ancora più soffocante, fino a quella sorprendente primavera del 1974, la straordinaria rivoluzione hippy dove la gerarchia sovvertita di un esercito guidato da giovani capitani abbatte dolcemente il tiranno, facendo fiorire garofani rossi dalla bocca dei fucili…

Lisbona si fa percorrere in una serie di immagini chiave che possiedono la forza e la densità del simbolo, il più potente dei quali è il viaggio, un legame indissolubile che inizia dalla leggenda del nome originario, Ulyssipo, la città di Ulisse, perché il mito la racconta fondata dal viaggiatore per eccellenza.

Lisbona, città-confine, dove il mare finisce e la terra comincia, è sempre stata un luogo di partenze, dal quale salpare per esplorare la vastità del mondo, e di arrivi, di chi, un tempo suddito, si riconosce cittadino e viene a riprendersi la madrepatria: con le suggestioni delle proprie culture, i retornados colorano le periferie riscattandole dalla condizione di non-luoghi comune a tutte le periferie del mondo e si fanno parte viva e integrata della metropoli.

A Lisbona perfino i santi sono viaggiatori. La salma del patrono, São Vicente, peregrinò a lungo, a bordo di una caravella e accompagnata da due corvi, dalla Spagna e lungo le coste del Portogallo, prima di approdare alla sepoltura nella capitale. E Fernando de Bulhões, il nostro S. Antonio da Padova, in realtà nacque proprio qui, all’ombra dell’imponente cattedrale, e percorse in lungo e in largo la Francia e l’Italia.

Anche la letteratura portoghese inizia con un’epica storia di viaggio, Os Lusiadas, una piccola Eneide che celebra l’epopea dei lusitani nell’epoca in cui, primi al mondo, inventavano la navigazione come scienza, scoprivano nuove rotte per paesi fino allora solo immaginati, disegnavano carte nautiche.

Del resto, Lisbona è città dell’oltre, dell’altrove, dove dai miradouros che costellano le alture lo sguardo è invitato a spingersi lontano, al di là del grande fiume che qui finisce la sua corsa, al di là dell’oceano, a misurarsi con un infinito illuminato dalla specialissima luce atlantica.

Con la sua costa protesa sull’Atlantico come una prua, si presenta come una città-nave, in rapporto simbiotico con il mare, come la descrive José Cardoso Pires:

Da subito, mi appari posata sul Tago come una città che sta navigando. Non mi stupisco: ogni volta che mi sento in vena di acchiappare il mondo, dall’alto di un belvedere o adagiato su una nuvola, ti vedo come una città-nave, un’imbarcazione con stradine e giardini al suo interno, e perfino la brezza che soffia mi sa di sale. Onde di mare aperto sono effigiate sui tuoi selciati, e ancore, e sirene. […] Davanti c’è il fiume che corre verso i meridiani del paradiso. Si tratta di quel Tago di cui parlano antichi cronisti matti, popolandolo di tritoni che cavalcano delfini.”

Una presenza che entra anche nell’arte, qui il gotico fiorito diventa manuelino, e declina i tipici motivi decorativi floreali in uno stile tutto marinaro di gomene, ancore, delfini e stelle marine.

È qui, in uno dei miradouro più suggestivi, che a dominare la vista sull’oceano si trova il monumento ad Adamastor, il mostro marino dalla tragica storia di amore e morte, il re delle tempeste, creatura fantastica ma incredibilmente reale nella sua personificazione del dramma della solitudine e degli addii.

Dall’oceano Lisbona ha imparato la sconvolgente intensità di burrasche di ogni genere, perciò è luogo di naufragi, di rovine e relitti; i ciottoli della sua ricostruzione dopo il disastroso terremoto e maremoto del 1755 sono i resti di case, chiese, colonne e monumenti, ossa spolpate di una città scomparsa, inghiottita dal mare come Atlantide.

Una città sorprendente, dove entrando in un portone qualunque invece che scale e pianerottoli capita di trovare, tra pareti rivestite di azulejos, un piccolo tram puntato verso il cielo;

dove la realtà slitta costantemente nel miraggio e accadono dialoghi surreali con poeti morti;

dove anonime insegne al neon nascondono l’ingresso in posti incredibili che sembrano nati dalla penna di scrittori in piena allucinazione, come la Casa do Alentejo descritta da Tabucchi nel suo romanzo onirico Requiem;

dove anche la toponomastica rende omaggio all’intensità dei sentimenti e dedica una piazza all’allegria

e una via alla saudade, uno stato dell’anima che solo la lingua portoghese è riuscita a esprimere, nessuno a tradurre e che i più fortunati hanno provato almeno una volta nella vita.