Erri De Luca, un principe con la geografia nel sangue

Sono passati tanti anni da questo primo incontro con Erri De Luca, un incontro doppio: con la sua scrittura – era il primo suo libro che leggevo, per dovere giornalistico di intervistatrice-; con lui in carne e ossa, per la presentazione del suo romanzo “Tre cavalli”. Mi sembrò, e continuo a crederlo, che quella figura esile, quasi consumata da una specie di fervore, fosse stata scolpita dall’intensità delle sue stesse parole, estratte con fatica viscerale e operaia come pietre da una cava. Alcuni temi di questo dialogo sono stati risolti dalla cronaca, altri rimangono ancora di un’attualità vivida e scottante, ma tutti mantengono la forza poetica e profetica di un sentirsi dentro l’umanità che nell’essere detta si fa letteratura.

 

 

A cosa si riferiscono i tre cavalli del titolo?

È una filastrocca, una bella filastrocca dell’Appennino emiliano che mi è capitata sotto gli occhi e che ho adottato, siccome dice che la vita di un uomo è lunga come quella di tre cavalli, al di là del titolo che mi è piaciuto come unità di misura della vita dell’uomo, l’ho applicata anche in giro, guardo le persone e mi domando a che cavallo stanno.

 

Tra i tanti temi presenti in questo libro, quello della scomparsa del lavoro artigianale. A un certo punto si dice “Gente con arte e mani di sapienze prese e vendute, strette dentro quattro mosse di fatica….”

È successo così a noialtri, a quelli del Sud che si sono trasferiti a Nord per andare dietro alle macchine e alle catene, a far lavori da somari semplici. Erano degli artigiani di grandissimo valore, di grandissima qualità. Sapevano fare selle, scarpe….

 

E questa abilità è scomparsa per sempre?

Sì, questo artigianato è stato raso al suolo, la sua manodopera trasportata altrove, dove ce n’era bisogno, e la sua competenza perduta. Le giovani generazioni…. come possono apprezzare un calzolaio quando si comprano a raffica scarpe pronte nei negozi già bell’e fatte?

 

È anche una riflessione sul significato profondo del consumismo?

Il consumismo intanto permette a molte persone di accedere ai beni, e questo è un valore discretamente positivo, ma a volte questo comporta delle perdite, io sono sensibile alle perdite, ogni tanto le nomino, perché si tratta di perdite di competenze e anche di persone.

 

La sua particolare geografia…. A un certo punto lei scrive che “essere principi vuol dire portare la geografia nel sangue”

Vuol dire avere molti incroci. Il contrario di quello che si dice per i nobili, che hanno il sangue blu, non so di che colore davvero lo abbiano, ma meno hanno incroci e meno sono nobili. Siccome io sono uno del meridione, del sud Italia e comunque in questa penisola i sangui si sono incrociati con violenza, i sangui di tutto il Mediterraneo e anche di popoli più lontani, io risento questo vantaggio di essere frutto di un mucchio, di un incrocio.

 

E questo ci porta alle immigrazioni e alle emigrazioni. Lei parla di immigrati africani ma anche delle nostre emigrazioni verso altri luoghi

Io sono nato a Napoli e quella città ha visto partire, nel corso del ‘900, milioni di italiani che si imbarcavano verso le Americhe e andavano a cercare fortuna da quelle parti, visto che la madreterra non prometteva loro alcuna fortuna. Erano i migliori, erano i più giovani, quelli che avevano più energie, più valore, quindi è stato un dissanguamento, uno svenamento dell’Italia. L’Argentina per esempio è stata la sponda per circa tre milioni di italiani, quasi una nazione. Hanno fondato quella nazione, sono stati parte di quel popolo e hanno anche patito insieme a quel popolo la dittatura degli anni ’70 e molti italiani, non solo italo-argentini, ma anche quelli nati in Italia sono ufficialmente scomparsi.

 

A proposito della vicenda dei desaparecidos e dei crimini perpetrati dalla dittatura argentina. Lei crede che ci sarà una giustizia?

Mi sembra che si sia avviato un meccanismo per cui si comincia a chiedere conto della scomparsa di queste persone e delle responsabilità penali. Ad esempio la Spagna, che si è mossa molto prima di noi, e al suo seguito la nostra giustizia. Proprio la giustizia spagnola ha aperto diversi casi e ha ottenuto addirittura l’estradizione per un torturatore responsabile di omicidi di cittadini spagnoli. Dunque la giustizia lentamente si è mossa, ma se lo ha fatto questo è dovuto al fatto che le madri delle persone scomparse hanno fatto “le pazze”, hanno deciso scientificamente e pagato duramente anche di persona, di protestare, durante e dopo la dittatura. Sono passati tanti anni, quasi trenta, e ora stanno ottenendo qualcosa, sono diventate nonne, ma se qualcosa si è mosso si è dovuto al coraggio delle donne.

 

Da qualche tempo lei ha incominciato a interessarsi delle storie della Bibbia, al punto che ne ha tradotto alcuni libri.

La leggo, mi piacciono quelle storie perché non sono letteratura. Sono storie antiche, remote, che non strizzano l’occhio a nessun lettore e a nessun presente. Sono storie che se uno le vuole seguire deve stare lontano, deve andarci verso, non sono trasferibili presso di noi, è il se stesso che se le vuole seguire deve sentirsi spaesato per andare da quelle parti. Mi piacciono quelle storie al punto che mi sono incuriosito della loro lingua d’origine, che è l’ebraico antico, mi sono messo a studiarla e riuscendo a leggere qualcosa di quelle pagine in lingua originale ho scoperto un mucchio di piccole sorprese che mi fa piacere mettere in commercio, condividere con le stesse persone che le vogliono leggere.

 

Come vede invece il modo di raccontare l’attualità? Lei pensa che il giornalismo stia andando verso un’eccessiva spettacolarizzazione?

Non sono d’accordo sulla spettacolarizzazione, quella secondo me non cambia granché il mestiere. Credo invece che ci sia meno coraggio nel giornalismo, mi sembra un giornalismo molto più attento alle ragioni del potere di turno e quindi autocensorio, che non azzarda l’inchiesta, andare controcorrente, aspetta che le castagne vengano fuori da sole.