Enrico Castellani – Noi rivoluzionari con il miraggio dell’assoluto

Quando, all’alba degli anni ’90, preparavo la mia tesi di laurea su Yves Klein, decisi di incontrare Enrico Castellani, un mito per qualsiasi studente di arte contemporanea, uno dei rarissimi superstiti tra i protagonisti e testimoni di quel magnifico, caleidoscopico e irripetibile Rinascimento che fu l’arte negli anni ’50 e ’60 del ‘900. Un’impresa che mi venne prospettata ardua, ai limiti dell’impossibile, vista la fama di uomo riservato e schivo, praticamente inavvicinabile, che circondava l’artista. Mi bastò invece una telefonata e, un po’ per la totale infondatezza di quelle voci, un po’ per una certa empatia come accade talvolta tra sconosciuti, fu addirittura il maestro a venire da me, una leggenda dell’arte, un gentiluomo lucido e rigoroso dallo sguardo profondissimo, seduto al tavolo di un bar di provincia a raccontare a una ragazza commossa la meraviglia di quegli anni indimenticabili.

 

Nell’introduzione alla mostra “Azimuth e Azimuth. 1959: Castellani, Manzoni e …” il curatore Marco Meneguzzo identifica due punti di riferimento fondamentali per gli artisti di Azimuth: Fontana e Klein…

Yves Klein e Azimuth? Io non vedo un’influenza particolare di Klein su Azimuth, semmai Azimuth, tutti noi, io stesso siamo influenzati da un clima particolare che c’è a Milano in quell’epoca, alla fine degli anni ’50, determinato in parte dall’opera di Fontana, in parte dai rapporti che in questo periodo manteniamo con il gruppo Zero di Düsseldorf. Yves Klein era un personaggio molto affascinante, ma lo si deve considerare all’interno di quell’ambiente, infatti partecipò alle mostre del gruppo Zero, anche se non era tra i fondatori. Era il clima particolare che esisteva in Europa.

È eccessiva quindi questa insistenza sull’importanza dell’influenza di Klein?

Per quanto mi riguarda sì. Il discorso potrebbe essere diverso per quanto riguarda il rapporto tra Klein e Manzoni, su cui c’è sempre stata una certa polemica. Lei saprà che Pierre Restany ha sempre sostenuto, anche se in maniera problematica e interlocutoria, che Manzoni fosse stato influenzato da Yves Klein. Io invece sostengo che questo è impossibile, perché sono il frutto di due culture diverse, opposte. Yves Klein è il tributario di una cultura tedesca, è di origine tedesca[1], quindi di un romanticismo panico, naturalistico. Manzoni invece parte da una cultura umanistica e razionale. Poi, curiosamente, pur con premesse così diverse, arrivano a risultati molto simili, ma la similitudine appare soltanto a una lettura un po’ superficiale se consideriamo che il dato che li accomuna è la monocromia.

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L’elemento della monocromia del resto non è comune soltanto a Klein e Manzoni.

Certo, è comune a tutto il clima culturale, sia pure con varianti…

Lei stesso ha scritto a proposito di monocromia su “Zero”, e un parallelismo Klein/Manzoni fondato solo su questo aspetto è da considerare con la massima cautela. Lei quindi è d’accordo con Germano Celant quando afferma che le affinità tra Manzoni e Klein sono più apparenti che reali?

Non conoscevo questa interpretazione critica, perché i discorsi che stiamo facendo in questo momento sono il ricordo un po’ sbiadito di riflessioni che facevo all’epoca, e che ora rappresentano problemi per me accantonati. In effetti, c’è una differenza culturale proprio nella partenza della ricerca. Anche i tempi sono diversi. Abbiamo visto Yves Klein usare i mezzi della natura per creare le sue opere, la pioggia, il fuoco. C’è un implicito esoterismo che poi si rivela quando si viene a sapere che faceva parte dei Rosacroce. In Manzoni non compare questo aspetto. Manzoni usa i mezzi della pittura per azzerare la pittura, per arrivare al grado zero. E poi oltrepassa tutti i mezzi del fare artistico per arrivare alla repulsione del pittore proprio come persona.

Non crede che Manzoni e Klein, al di là del parallelismo superficialmente stabilito sulla monocromia, si avvicinino maggiormente per la volontà di comunicazione, di usare l’arte come messaggio ma anche come medium?

È vero, questo li accomuna molto di più che non la monocromia, ma in generale era proprio il clima dell’epoca… C’era la volontà di essere presenti anche nella società, soprattutto i tedeschi del Gruppo Zero che organizzavano mostre in continuazione. Era una temperie che ricordava un po’ il futurismo delle origini. Mi viene in mente un aneddoto un po’ curioso. Piero si era messo d’accordo con Yves Klein per scambiarsi i quadri. Noi infatti allora avevamo problemi di trasporto, dogane e così via. Piero mi raccontava di essersi accordato con Yves cosicché, quando lui avesse avuto necessità di fare una mostra a Milano o viceversa, Piero avrebbe fatto i quadri blu a Milano e Yves i quadri bianchi a Parigi, per non avere problemi logistici.

Questo è un aspetto sintomatico, a parte l’elemento aneddotico, delle riflessioni sulla paternità dell’opera, molto accese in quel periodo. Ne è un esempio la fondazione dell’”International Klein Bureau”, che autorizza i membri a realizzare e firmare opere “di Klein”.

Cosa che la moglie ha fatto… Senza dubbio c’era la volontà di smitizzare la personalità dell’artista, che era ritenuto fino allora il demiurgo, l’essere irripetibile che faceva opere e proponeva un prodotto irripetibile. Questa era una volontà molto sentita, anche a livello di gruppi, come il gruppo T, il gruppo N, Motus.

Che rapporto aveva, artisticamente, con le opere di Klein?

Ne prendevo atto come un fenomeno interessantissimo, però ero più vicino a Manzoni, anzi io ho conosciuto Yves Klein, non personalmente, ma il suo lavoro, dopo aver conosciuto Piero Manzoni, che faceva già i quadri bianchi.

In “Continuità e nuovo” lei ha scritto: <Il bisogno di assoluto che ci anima, nel proporci nuove tematiche, ci vieta i mezzi considerati propri al linguaggio pittorico>. La ricerca dell’assoluto è un elemento fondamentale per il percorso artistico di Klein. Lei cosa intendeva per assoluto?

Noi volevamo andare oltre il fatto aneddotico dell’artista che rimastica dati culturali o artistici. L’assoluto per noi era un miraggio che intravedevamo a partire da questa volontà di azzeramento sia della personalità, sia del dato occasionale, spurio del carattere come ci era stato tramandato. Noi, io, Manzoni e lo stesso Yves Klein tutto sommato rimanevamo nel campo di una disciplina, vedendola come strumento della volontà di andare oltre.

A proposito di assoluto, lei parlava di volontà di stare dentro la società. Che cosa può dire dell’utopia? Per Klein è stato particolarmente importante questo aspetto, teorizzato, anche politicamente, nella Rivoluzione Blu, chiaramente di matrice romantica. Per voi di Azimuth e di Zero che cos’era l’utopia?

Veniva automaticamente proprio da questo bisogno di andare oltre attraverso i mezzi che ci inventavamo di volta in volta, di andar oltre la condizione dell’artista e del suo modo di fare arte, per cui avevamo bisogno della società come interlocutore, perché altrimenti ci saremmo di nuovo chiusi nei nostri studi a fare gli artisti in modo tradizionale. Allora era l’epoca delle riviste, dei manifesti, cercavamo degli interlocutori e di dialettizzarci all’interno della società. Non si può dire che avessimo un progetto sociale, anche se ci consideravamo di sinistra.

 

Yves Klein è stato accusato di fascismo…

È sempre difficile dare una collocazione partitica a idee che sono ancora in divenire, in sviluppo. Sono delle affermazioni che poi andrebbero valutate con una riflessione seria. Ma quelli erano periodi in cui si dava del fascista a chi non era marxista non dico in modo ortodosso, ma addirittura sovietico. Io mi consideravo comunista, come ora, ma sono sempre stato molto critico nei confronti del Pci.

In Klein mancava però questo aspetto di critica sociale, ragionata. Il suo progetto era un sogno, una visione, più che una sicura, razionale, cosciente presa di posizione in senso sociale e politico.

Io ho saputo soltanto molto tempo dopo della sua adesione ai Rosacroce e della sua religiosità, era molto devoto di Santa Rita. Era anche molto tedesco, oltre che di origine lo era anche culturalmente: c’era insomma un filone germanico che si dedicava appunto a queste forme di misticismo, che è poi il filone romantico dell’arte ed è proprio il discrimine tra lui e Manzoni. Manzoni era un cartesiano. Anche l’elemento orientale, che Klein esprimeva nel gesto, nella pittura con il rullo, della spersonalizzazione e dell’espansione del Sé fino all’infinito, è il suo aspetto peculiare rispetto agli altri membri del gruppo Zero, con cui collaborava. Ma il gruppo Zero si è poi allargato a dismisura. Lui comunque c’è stato fin dall’inizio.

Avete mai parlato di Klein con Manzoni?

Non molto, a parte quell’aneddoto. Sì, si vedevano, anche perché Manzoni viaggiava più di me, che all’epoca ero impegnato a fare un altro lavoro. Si incontravano a Parigi e anche a Milano. A Milano Yves Klein aveva fatto una mostra da Le Noci, alla galleria Apollinaire, e credo che avessero un reciproco rispetto. Io non so quanto Manzoni avesse colto il senso delle peculiarità di cui abbiamo parlato a proposito di Klein, forse non ne era neanche al corrente; certamente non sapeva che Klein facesse parte dei Rosacroce. In ogni caso eravamo tutti molto impegnati nelle nostre ricerche individuali, per cui ci limitavamo a conoscere il lavoro degli altri, ma senza trarne immediatamente conclusioni critiche.

 

[1] In realtà il padre di Klein era di origine olandese, ma in effetti, in senso più ampio, l’artista si può considerare  tributario di un clima culturale genericamente germanico.